IO SPERIAMO CHE TE LO IMPARO

Gli esami non finiscono mai. Non è soltanto una noiosissima e ripetitiva frase fatta che un insegnante rivolge allo studente dopo averlo visto sbuffare per l’ennesimo compito a sorpresa. Gli esami non finiscono mai perché non si smette di vivere esperienze, di rivalutare con occhi nuovi quello che si è compiuto prima, che il ruolo sia quello istituzionale di un maestro o quello di chi è seduto dall’altra parte. Ma in entrambi i casi, il processo è bidirezionale. A fare la differenza è il vissuto, gli anni, i titoli accademici. 


Ma credere che insegnare non voglia dire anche imparare è un errore di fondo, un punto di partenza che conduce ad una strada poco costruttiva, banalmente nozionistica. Insegnare non vuol dire solamente trasmettere nozioni, come imparare non può vuol dire solo memorizzare un numero, una data o un nome celebre. C’è qualcosa di molto più duraturo e profondo nel processo di condivisione (perché di questo si tratta), a prescindere da quale sia l’ambito in cui tale processo ha luogo. Si apprende osservando gli altri, in una chiacchierata tra amici, leggendo un libro, viaggiando, conoscendo persone che avranno già un vissuto diverso rispetto al nostro. Esistono poi luoghi istituzionalizzati in cui tale processo può essere limpidamente riconosciuto ma non va dimenticato il resto. Tutti gli attori protagonisti, che si tratti di insegnanti o studenti, possono solo beneficiare dall’estrapolarsi di tanto in tanto da quel luogo “sacro” e guardarsi dall’esterno, per non incappare in meccanismi automatizzati che alla lunga possono diventare un ostacolo alla condivisione e per nulla funzionali all’apprendimento. Non è certo una facile presa di coscienza da parte dell’insegnante, date le infinite variabili da considerare. 


Prendiamo l’esempio di una classe elementare, come quella protagonista del film “Io speriamo che me la cavo”, film del 1992 diretto da Lina Wertmüller. Il film, considerato un cult del cinema italiano, è tratto dal romanzo di Marcello d’Orta, maestro elementare e scrittore napoletano, che raccolse sessanta temi degli studenti di una scuola elementare di Arzano (nel film rinominata Corzano) e decise di riunirli in un libro, riuscendo a raccontare uno spaccato sociale a dir poco complesso attraverso descrizioni ricche di errori grammaticali e virtuosismi dialettali, ingredienti preziosi e tragicomici. 


Gli scugnizzi della classe non sono gli unici protagonisti del racconto. Uno straordinario ed inconsueto Paolo Villaggio veste i panni del loro insegnante, appena trasferitosi dalla Liguria per un errore ortografico (ironia della sorte). 

La sfida che si trova ad affrontare mette alla prova tutte le qualità che l’insegnante ideale dovrebbe avere, tra cui le difficili arti dell’empatia e dell’immedesimazione, l’altruismo e non il protagonismo, l’umiltà di sapersi rimettere in gioco e rivalutare i propri metodi perché magari non adatti ad un determinato contesto. Ma deve anche prelevarli uno a uno per il paese e riportarli a scuola, perché i bambini sono a lavoro. Corzano è una cartolina del degrado, la scuola è abbandonata a sé stessa (mancano persino la carta igienica e il gesso), la direttrice “lascia correre” ed il nuovo maestro, del tutto alieno da quel contesto, deve prima comprenderlo e poi reinventarsi. Saranno però gli stessi bambini, caricati di fiducia dal loro nuovo maestro così diverso, a raccontare a lui (e indirettamente a noi spettatori) la realtà di Corzano, dalle case “sgarrupate” fino ad un carico di responsabilità domestiche e sociali non proprie di quell’età. Quello che emerge alla fine è una critica feroce di quel contesto, seppur stemperata da toni infantili e momenti leggeri (proprio quelli che un insegnante utilizza, o dovrebbe utilizzare, per compensare la fatica che comporta il mantenimento di un’alta soglia di attenzione). 


Il libro di Marcello d’Orta prima e la pellicola di Lina Wertmüller poi, ci permettono di ficcanasare in quello che Fabio Dei chiama il mondo chiuso della classe, un mondo fatto di regole proprie, in cui sia insegnanti che studenti possono sviluppare un diverso tipo di personalità e performare comportamenti che non avrebbero al di fuori. Con la necessaria consapevolezza di trovarsi ad avere a che fare con l’alterazione della fiction, il film simula inconsapevolmente il procedimento etnografico. Siamo dentro la classe, ci interponiamo tra docente e discente e ci immedesimiamo in entrambe le parti. Che sia una finzione o che sia realtà, varchiamo una soglia, siamo (noi spettatori) corpi estranei in un un tessuto di micropratiche sociali molto complesse, di cui spesso nemmeno i protagonisti sono consapevoli. Ecco la parola chiave: consapevolezza. Negli ultimi anni si parla spesso delle aumentate difficoltà che ha l’istituzione scuola nell’adempiere al suo compito, dell’insegnamento divenuto molto più complicato e di conseguenza di un apprendimento più difficoltoso. 

Sicuramente sono diverse le cause: la nostra società ha subito dei cambiamenti epocali negli ultimi vent’anni, perpetuando un’accelerazione tecnologica mai così rapida, dimenticando però di comprenderne a pieno le conseguenze sul piano sociale, psicologico e antropologico. Abbiamo per le mani strumenti di apparente socialità e di infinite potenzialità, da tutto quello che racchiude Internet ai social network, che hanno modificato profondamente le nostre relazioni interpersonali, i nostri bisogni indotti, la nostra capacità di informazione, il delicato equilibrio tra corpo e mente. Siamo continuamente bombardati da una serie infinita di stimoli e questo influenza inevitabilmente la nostra attenzione e la nostra capacità di approfondimento. I bambini non sono immuni da questa rivoluzione, anzi, sono i cosiddetti nativi. Quando si considerano cause come l’aumentata indisciplina dei ragazzi o la difficoltà nello gestire un gruppo sempre più eterogeneo, si commetterebbe forse un errore di analisi se non si tenesse conto di una consapevolezza del contesto comunicativo. 


Ma abbiamo fatto un salto temporale troppo ampio.  Torniamo al film. 

Se Marco Tullio Sperelli (Paolo Villaggio) si attenesse al programma didattico, senza tener conto del vissuto e della condizione di ogni singolo studente, sarebbe un pessimo insegnante e non otterrebbe nessun risultato. La terza elementare della scuola Edmondo de Amicis è una classe di esibizionisti, sembra uno show continuo. I bambini intonano la canzone di Maradona, recitano filastrocche locali, utilizzano espressioni dialettali o parolacce (che sanno più di folklore che di volgarità) e riportano vissuti quotidiani e aneddoti locali. Sono loro i primi ad educare il maestro su quale sia la situazione di Corzano. Tuttavia i bambini non sono né clown né narratori; stanno recitando la parte che la classe si aspetta che recitino. Se Marco Tullio Sperelli reprimesse, o ancor peggio punisse, la loro “vena teatrale”, ancora una volta sarebbe un pessimo insegnante. Seguendo questa scia di ragionamento, Marco Tullio Sperelli è davvero un insegnante a tutto tondo: si adatta al contesto comunicativo della classe; si pente profondamente di aver commesso un errore nel suo schiaffo istintivo e nervoso ai danni di Raffaele (Ciro Esposito), ricalibra il suo approccio alla classe, dimostrando di avere quella che Fabio Dei definisce consapevolezza (ci risiamo) riflessiva, ovvero la differenza tra saper parlare e conoscere le regole della grammatica, tra livello comunicativo e metacomunicativo. È il maestro in primis ad imparare una lezione, a lasciarsi forgiare da un insegnamento, a farlo proprio e ad utilizzarlo funzionalmente per interpretare al meglio la sua parte e raggiungere uno scopo preciso: ottenere la fiducia dei bambini, creare una linea comunicativa a doppio senso, trasmettere ed avere un riscontro anche soltanto con la prossemica del corpo e con l’arte della concessione ragionata, non con la repressione a priori frutto di una chiusura mentale o di un orgoglio improprio. La pellicola è la celebrazione dell’insegnante, in contrapposizione al decadimento di ciò che sprofonda intorno, che si tratti di una decadente Corzano o di una scintillante vuota realtà. 

Perché la scuola si può anche schifare, ma un bravo insegnante no. 


Dott. Patrizio Simonelli

Laureato al DAMS e in Antropologia.  Esperto di cinema.

Il mio obiettivo è quello di  stimolare il confronto con l’altro e il pensiero divergente, la ricerca di emozioni positive e la rielaborazione di emozioni e vissuti che emergono durante la visione del film.

Cinematerapia: il cinema come strumento di sviluppo personale. 

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